La piazza principale del paese, in pieno centro storico, è dedicata al sacerdote poeta. Da qui Giacomo, appena novenne, partì il 2 novembre 1829 alla volta di Vicenza, dove avrebbe intrapreso e proseguito gli studi.

 

 

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Di particolare interesse, al centro del crocevia della piazza, a pochi passi dalla sede municipale, la colonna in stile corinzio, realizzata nel 1979, assieme ad altre 58, per il tempio della religione Baha’i, ad Haifa in Israele.

La Casa universale di giustizia è un edificio lungo 62 metri, largo 34 e alto 25. Le 58 colonne del peristilio vennero tutte realizzate a Chiampo. Una colonna venne tenuta in paese, per testimoniare ai posteri l’abilità dei marmisti locali. Opere nate dall’ingegno, dalla perizia, dall’estro. Per farle furono addirittura inventate e realizzate delle apposite macchine.

 

 

 

 

 

 

Veduta di piazza Zanella

 

 

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Una foto storica del giorno dell’inaugurazione, nel 1979. Si nota come la colonna originariamente sia stata posta a lato della sede stradale. Sarà spostata al centro della rotatoria solamente nel gennaio 2016.

A fianco, la casa universale di giustizia Bahai, ad Israele, dove sono ben visibili le colonne eseguite dai marmisti del Chiampo.

 

Il marmo è un Pentelikon di Grecia, lo stesso usato dai Greci per realizzare il Partenone. In 26 mesi ne furono lavorati 2400 metri cubi. La colonna in piazza Zanella è alta 10,80 m con un fusto in tre rocchi, alla base è larga 120 cm e alla sommità 90 cm. Il capitello ornato con triplice foglia d’acanto misura 162 cm x 162 cm x 132. Al suo interno venne posta nel 1979 una pergamena con la storia della colonna, una poesia scritta da Giulio Piazza e i nomi degli autori e delle ditte. Una curiosità: un’identica pergamena venne posta in segreto sulla cupola del tempio di Haifa.

 

 

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Vicino alla colonna, lo Stongate, un grande anello di pietre del designer Raffaello Galiotto e dei marmisti di Chiampo. È formato da 20 conci ognuno dei quali pesa 500 kg. Alto 3,80 metri e profondo 1,20, in un equilibrio perfetto tra massa, peso e gravità. L’intera opera è assemblata a secco, in una struttura autoportante grazie allo stato di compressione impresso una tensione di cerchiature in acciaio attorno ad essa. Ogni concio è stato lavorato all’esterno con decorazioni tridimensionali per una maggiore resa estetica che varia col variare della luce. Il marmo scelto per l’opera è il Bardiglio nuvolato, un marmo grigio con venature bianche.

 

 

 

 

Lo Stonegate esposto davanti all’Arena di Verona, in occasione della fiera del marmo Marmomacc, nel 2013. In seguito è stato installato in piazza Zanella e donato alla città.

 

 

 

 

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Anticamente lungo questa piazza transitavano i carri trainati da buoi per trasportare i pesanti ed enormi blocchi di marmo estratti dalla cave delle colline circostanti verso i laboratori del paese, per il taglio e la lavorazione. 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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In paese giungeva anche il capolinea della ferrovia che collegava la Valle con Vicenza. Dopo diverse battaglie, il sindaco di allora riuscì ad ottenere che la celebre “vaca mora” arrivasse fino a Chiampo. Il tempo per percorrere il tragitto Chiampo-Vicenza era di due ore. La ferrovia, poi elettrica, rimarrà in funzione fino agli anni ’80.

 

 

A FEDELE LAMPERTICO - 1868

La poesia si trova in “Versi” la prima raccolta di poesie dello Zanella, edita da Barbera nel 1868.

 

Giacomo Zanella ricorda a Fedele Lampertico, di cui fu maestro ed amico, l’infanzia, quando parte da Chiampo il 2 novembre 1829 per compiere gli studi a Vicenza. Ha giocato l’ultima volta con gli amici nel cortile. Poi, il triste addio al suo paese, agli affetti, ai volti cari. Con sé, soltanto un cardellino. Inizia così il cammino della formazione del sacerdote poeta. Sono versi melanconici del forzato addio.

Dopo l’inizio affidato ai ricordi, i versi trattano le grandi conquiste dell’epoca dello Zanella. L’epistola poetica è l’espressione più eloquente degli spiriti liberali dello Zanella, aperto al secolo delle “Magnifiche sorti e progressive”. Il poeta canta “l’epopea meravigliosa” delle conquiste del secolo XIX. (tratto da “Giacomo Zanella, poeta antico della nuova Italia” di Stelio Fongaro).

 

 

  • tappa9_008Fedele Lampertico nacque a Vicenza nel 1833. Al liceo incontrò Giacomo Zanella, suo maestro. I due rimarranno in amicizia tutta la vita. Nel 1855 si laureò in giurisprudenza a Padova. Nel 1866 dovette lasciare Vicenza per via degli austriaci. Fece parte del consiglio comunale di Vicenza e ricoprì la carica di presidente del consiglio provinciale. Dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia sarà eletto deputato alla Camera e senatore del Regno d’Italia dal 1873. Economista, anche letterato. Ancora oggi sono presenti i carteggi fra Zanella e Lampertico. Morì a Vicenza nel 1906.

 

Va ricordata, in particolare la dedica introduttiva a “Versi” proprio al Lampertico. L’1 agosto 1868, nella prima pagina dell’opera, lo Zanella usa una metafora chiamando in causa il marmo del suo paese:

 

 

 

 

 

 

Ti dedico questi versi, che meglio di ogni altro conosci come mi venissero fatti. Le fatiche dell’insegnamento, a cui ho già consacrata la mia vita; e l’avere per tempo conosciute le difficoltà dell’arte, mi avrebbero agevolmente distolto da quello studio, se le tue amorevoli esortazioni e di altri amici tratto tratto non mi vi avessero richiamato. […]

Nelle cave di pietra che sono in Chiampo, mio luogo natale, ho veduto che i primi strati non hanno valore, come quelli che facilmente si sfogliano e si sgretolano; solamente dopo il secondo o il terzo esce la lastra magnifica, che resiste alla forza dissolvente del sole e del ghiaccio”.

 

 

Di pochi lustri io ti precorro, amico,

Nelle vie dell’età; ma quante usanze

Ch’erano in fiore ne’ miei primi tempi

Io non vidi cader! quanti costumi

Che tu non conoscesti, o solo appresi

Hai dal labbro de’ vecchi! Or son fecondi,

Come secoli, gli anni. In opulenta

Culla e fra gli agi di città gentile

Tu le care del giorno aure bevesti;

Io dentro picciol borgo, in erma valle

Cui fan le digradanti alpi corona,

Vissi oscuri i miei dì, finchè novenne

Alla città mi trasse il mio buon padre

A dibucciar la prima scorza. Il giorno

Era de’ Morti. I flebili rintocchi

Della campana all’attristato core

Crescean tristezza. Mal celando il pianto,

Nell’usato cortil co’ vecchi amici

Sull’imbrunir venuti a salutarmi

Giocai l’ultima volta. Un cardellino,

Mio compagno d’esiglio, innanzi all’alba

Cantarellando mi destò: del mondo

Al paro conoscenti entrammo in via.

 

Alle venture età, quando i nepoti

L’avo a sera raccolga, e novellando

La cadente del sonno ala sospenda,

Di giganti epopea meravigliosa

Questo secol parrà, di cui la soglia

Tengono immani Bonaparte e Volta.

Come rósa dagli anni eccelsa ròcca,

Quell’antico di servi e di signori

Edificio cadè. Sovra le piazze,

Di strana arbore all’ombra e fra le danze

Della folla beffarda, arser gli stemmi

Che d’infiniti spazî il titolato

Sir dalla gente divideano. Il dritto

Si disconobbe delle prime fasce;

E partito egualmente a’ molti figli

Scese il censo paterno. I latifondi

Che orante cenobita abbandonava

Alla randagia pecora, innaffiati

Dal libero sudor d’industri volghi

Lussureggiâr di varia mèsse; all’opra

Eran stimolo i figli e lo sgomento

Del pubblico esattor. Regali vie

Alle città lontane agevolaro

 

I fraterni commerci; e vie minori

All’urbane eleganze il varco apriro

Degli alpestri villaggi, ove a gran stento

Con pettini e con nastri all’annua fiera

Si arrampicava il mulattier. Trascorse

Grido di guerra le solinghe valli

E gloria lusingò gli agresti cuori,

Quando scampato dalle lunghe pugne

E altero di sue piaghe il contadino

Narrava a’ padri le vedute cose,

Saragozza, Stralsunda e miseranda

Voragine d’eroi la Beresina.

Insolito splendor d’arti rifulse,

E ferree spole e leve onnipotenti

Al braccio umano allevïâr fatica,

Addoppiando il lavor. Su poderose

Ale di foco continenti e mari

Corse cupida industria: alla parola

Diessi il volo del lampo; e convenuti

A banchetto comun da tutti i venti

Varî di volto e d’abito i mortali

La prima volta si gridâr fratelli.

 

Barbogio vate che s’adagia al rezzo

Dell’arcadiche selve e di Fileno

Per la bella Amarilli i lai ricanta,

Contro il secolo insorga; e dal tugurio

D’ingentilito contadin, che legge

All’accolta famiglia util volume,

Gridi fuggiasca l’innocenza antica.

Dolce ricordo a lui sian le pareti

Fuligginose e borëa che fischia

Dal balcon non difeso. A mezzanotte

Dentate strigi e lemuri danzanti

Sulle brage sopite; e gemebonde

Per le scale cadenti e sotto gli usci

L’alme de’ morti ispirino la musa

Che deplora scomparsa un’altra volta

Di Saturno l’età. Che se la fame,

Quando l’angusto campicel negava

L’annua raccolta e di straniere mèssi

Per l’inospiti vie speme non era,

I coloni nel verno a centinaia

Implacata mietea; se fiero morbo

Non circoscritto da salubri leggi

Nella vorace fossa tuttoquanto

Addensava il contado, avventurosi

Pur ei chiami que’ dì, perchè di tele

Americane non fasciava il fianco

La leggiadra villana, e mattutina

Bevanda ad essa la fumante tazza

Dell’arabo legume ancor non era.

Pianga gli agi cresciuti: de’ misfatti,

Onde il secolo è reo, ricchezza incolpi;

E madre di virtù, sola maestra

D’aureo costume povertà saluti.

 

O mio candido amico, o delle fonti

Onde sgorga ricchezza e si comparte,

Sagace scrutator, più volte intesa

La rettorica nenia avrai di gufi

Avversi al sole. Veneranda, augusta

È povertà, se al focolar si assida

D’operoso mortal che lotta indarno

Contro i colpi d’indomita fortuna.

Ma se d’ignavia e d’ignoranza è figlia;

Se la man che il Signor fece al lavoro,

Altri supplice tenda al passaggero;

O finchè gli anni arridono e le forze,

Pago del vitto giornalier, non curi

L’egra vecchiaia provveder di schermi;

Sommo de’ guai che attristano la vita,

È povertà che con ferro e con foco,

Come sozzo mortifero serpente,

Fugar conviene. Allor che l’abituro

Dell’artigiano io visito e le stanze

Nitide veggo; ripulite sedie

E vasellami; d’odorata persa

O di semplice timo i davanzali

Veggo fioriti, di virtù mi sembra

Dolce un profumo errar per la ridente

Magion che la fatica orna e consacra.

Ma qual d’affetti gentilezza? o quale

Dignità di pensier dentro l’immonde

Umide cave del disagio? Il lezzo,

 

Che le membra contamina, s’apprende

Allo spirto invilito; e non de’ figli

Che onorati si allevino e gentili,

Punge i sordidi padri alcuna cura.

Lode all’età che migliorando il vitto

E la veste e l’albergo all’umil volgo,

L’alme ancor ne migliora; e fra le gioie

Di cheto casalingo paradiso

Gl’insegna abbominar bische e taverne.

I ritegni sparîr. Rotta la nebbia

D’antichi errori, e di dottrine e d’arti

Fatto adulto e possente al suo meriggio

L’uman pensiero glorïoso ascende.

Or tanta luce di scoperte e tanta

Fiamma di brame indefinite, immense

All’uom largite non avrebbe Iddio,

Se del pan che matura il patrio solco,

E del vestir che la vellosa groppa

Di domestica agnella gli consente,

Dirsi pago dovea. Sir del creato,

Come sotto ogni ciel, dall’Orse algenti

All’adusto Equator trova sua stanza,

Nè salute gli scema o vigoría;

Così da quante terre e quanti mari

L’occhio esplora del sol, tributi accoglie.

Nel suo tetto regal, cui fanno lieto

Turcheschi drappi ed anglici cristalli,

 

Bello veder di giapponese argilla

Sugli orli rosseggiar fiore cresciuto

Della Plata sul margo; e tremolante

Sovra il crin delle nuore e delle figlie

Candida piuma che agitò le sabbie

D’africano deserto. A me sgomento

Opulenza non dà che guiderdone

È d’industria e saper: l’invida io temo

Losca ignoranza che squallore ed ozio

Copre col manto di virtù celeste;

Tetro, deforme, sciaurato mostro

Contro cui colla penna e più coll’opra

Tu, generoso delle plebi amico,

Sì frequenti e gagliardi i colpi assesti



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