In questa casa Giacomo Zanella nacque sabato 9 settembre 1820.

I genitori erano Adriano Zanella e Laura Beretta, la madre imparentata con la nota famiglia Rossi di Schio, imprenditori delle lane. Il padre, Adriano, aveva un negozio di generi vari, ed era anche fabbriceria della parrocchia negli anni in cui nasce Giacomo. Lo Zanella trascorrerà l’infanzia e la fanciullezza all’interno di questa casa, fino al novembre 1829, in quella che un tempo era via Nobile, ed oggi intitolata via G. Zanella.

Sulla facciata della casa è stata posta nel 1888 una lapide dal Comune:

 

 

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A GIACOMO ZANELLA

IN QUESTA CASA IL 9 SETTEMBRE 1820

CHE GIA’ IN FAMA ALTISSIMA DI POETA

CANTAVA

I RICORDI DI SUA FANCIULLEZZA

AFFRETTANDO COL DESIDERIO

CHE RIVIVESSERO DI VITA NUOVA

OVE FINE NON HANNO

IL MUNICIPIO DI CHIAMPO

POSE QUESTA MEMORIA

  1. A. 1888

 

 

 

Il poeta terrà sempre cari i ricordi legati alla casa, alla via e al borgo, che definirà “picciol borgo, in erma valle cui fan le digradanti Alpi corona”.

All’interno dell’edificio, che ha mantenuto nel tempo la struttura e le stanze d’origine, è di notevole interesse il camino del tinello, descritto dal poeta ne “La veglia”, e il porticato esterno sul giardino, anch’esso ricordato nelle liriche. Il poeta venderà la casa nel 1870.

 

 

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Il “focolar paterno” il porticato del giardino

 

Nel sonetto “San Bastian dalla viola in man” del 1872, anno della morte della madre, pensa con nostalgia all’età in cui in questo giardino, marinata la scuola, si dilettava a cercarvi le prime viole:

 

 

Nell’età dei trastulli, a cui rivola

l’egro pensier con desiderio eterno,

in questo dì non mi vedea la scola

rabescar di latino il mio quaderno;

 

ma desïoso di miglior parola

lungo le siepi del terren paterno

cercando io gìa la timida vïola

che m’annunciasse il declinar del verno.

 

Fior più gentil, né men dall’alma atteso

ora colgo fra gli aridi volumi,

ove m’attempo a limar voci inteso.

 

Ben è ravvolto di pungenti dumi;

ma più di nascosto e più da’ nembi offeso,

più m’affascina il cor co’ suoi profumi

 

 

VIA ZANELLA E L’INTORNO

E’ una storica arteria del centro urbano di Chiampo. Nota come località “del pozzo”, un tempo era via Nobile, successivamente intitolata al sacerdote-poeta. Qui aveva sede un tempo anche la casa del Comune. Recentemente il pozzo è stato ricostruito all’incrocio tra via Zanella, via Isnardo, via don P. Mistrorigo e via Canareggio, rievocando l’antico pozzo del crocevia.

 

 

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Una foto storica della via, dov’era la casa del Comune. Sulla sinistra si nota l’antico pozzo. Il nuovo pozzo ricostruito

 

 

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Di fronte alla casa di Giacomo Zanella, una targa indica l’abitazione d’origine della famiglia di Candido Portinari, il pittore più famoso del Brasile.

  • Candido Portinari nacque nel 1903 a Brodowski, una fazenda di caffè del Brasile dove il padre era arrivato per cercare fortuna. Giovan Battista Portinari, infatti, partì da Chiampo nel 1896. Suo figlio Candido dopo gli studi e viaggi oltre oceano, diverrà il pittore più famoso della nazione e tra i maggiori dell’America latina. L’immagine di Candido Portinari è oggi sulle banconote di 5mila Cruzados del Brasile. Due grandi affreschi (La Guerra e La Pace) si trovano a New York nel palazzo delle Nazioni Unite. Candido morì nel 1962. Oggi la sua opera è valorizzata dalla fondazione Portinari, del figlio Joao Candido, che gestisce anche la casa museo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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(1) Lapide sulla casa di Giovanni Battista Portinari. (2) Un dipinto di Candido Portinari

 

 

Appena imboccata via Canareggio, invece, villa Chiericati-Adami (XV sec).

 

tappa6_009    tappa6_010L’esterno di villa Chiericati-Adami. (2) L’esterno, ed il giardino interno di villa Chiericati-Adami.

 

Verso il centro, proseguendo, si trova palazzo Capra-Puglisi (XVI sec), appartenente ad una delle famiglie più nobili di Vicenza.

 

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Esterno di villa Capra – Puglisi. (2) giardino interno di villa Capra – Puglisi.

 

 

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Procedendo ancora lungo via Zanella, palazzo Righetto (XIV sec), appartenente alla famiglia da cui nacque il garibaldino Raffaele Righetto, dei Mille di Garibaldi, che incarnò gli ideali patriottici di cui era animato lo Zanella.

  • Raffaele Righetto (1837-1891). Si arruola nell’esercito sardo a ventidue anni. Parte poi da Quarto tra la schiera dei Mille di Garibaldi, mostrando tanta energia e tanto coraggio da ottenere una medaglia d’argento al valore militare. Partecipa alla campagna del 1867, a Mentana, e successivamente è promosso maggiore. Fra una guerra e l’altra, studia e a consegue a Napoli la laurea in matematica. Ottiene l’abilitazione alla professione di ingegnere e progetterà importanti ferrovie come la linea lucano-calabrese o a La Spezia. Scompare il 17 gennaio 1891. Una lapide sulla casa natale ne ricorda le gesta.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Palazzo Righetto (oggi Nardi) (2) Particolare della facciata con la targa in sua memoria.

 

 

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“LA VEGLIA” – 1864

Splendida Ode in quartine, sul senso della vita e della morte. Giacomo Zanella ritorna alla vecchia casa dove è nato. E’ l’autunno del 1864. E’ notte, da solo, ancora sveglio, medita e viene colto da nostalgica malinconia per mezzo del fuoco che proietta sulle pareti ombre giganti con la “tremebonda vampa”.

 

In silenzio, ricorda ancora una volta gli anni della sua fanciullezza, quando la casa era piena di vita e gli era “immensa festa cinger cogli altri il focolar paterno”. Voci che oggi sono morte, non esistono più.

Quindi, riflette sul senso della vita e della sua esistenza: “Chi fui? Chi son?”, e ripercorre quei lontani anni, donandoci un commovente e tenero quadretto. In particolare, quando “garzoncel furtivo”, prima dell’aurora scendeva le scale, e usciva per correre sui monti.

Emerge il confronto tra la vita effimera e breve dell’uomo, rispetto ai cicli della Terra e della Natura.

Opera di Fiorenzo Vaccarretti

 

Rugge notturno il vento

Fra l'ardue spire del camino e cala

Del tizzo semispento

L'ultima fiamma ad agitar coll'ala.

 

La tremebonda vampa,

In fantastica danza i fluttuanti

Sedili aggira, e stampa

Sull'opposta parete ombre giganti.

 

Tacito io siedo; e quale

Nel buio fondo di muscosa roccia

Lenta, sonante, uguale

Batte sul cavo porfido una goccia;

 

Tal con assiduo suono

Dall'oscillante pendolo il minuto

Scendere ascolto, e prono

Nell'abisso del tempo andar perduto.

 

Più liete voci in questa

Stanza fanciullo udía, quando nel verno

Erami immensa festa

Cinger cogli altri il focolar paterno.

 

Morte per sempre ha chiusi

Gli amati labbri. Ma tu già non taci,

Bronzo fedel, che accusi

Col tuo squillo immortal l'ore fugaci,

 

E notte e dí rammenti,

Che se al sonno mal vigili la testa

Inchinano i viventi,

L'universo non dorme e non si arresta.

 

Che son? che fui? Pel clivo

Della vita discendo, e parmi un'ora

Che garzoncel furtivo

Correa sui monti a prevenir l'aurora.

 

Giovani ancor del bosco,

Nato con me, verdeggiano le chiome;

Ma piú non riconosco

Di me, cangiata larva, altro che il nome.

 

Precipitoso io varco

Di lustro in lustro: della vecchia creta

Da sé scotendo il carco

Lo spirto avido anela alla sua mèta.

 

Non io, non io, se l'alma

Da' suoi nodi si sferra, e si sublima,

Lamenterò la salma,

Che sente degl'infesti anni la lima.

 

Indocile sospira

A piú perfetta vita, e senza posa

Sale per lunga spira

Al suo merigge ogni creata cosa.

 

In fior si volge il germe,

In frutto il fiore: dalla cava pianta

Esce ronzando il verme

Che april di vellutate iridi ammanta.

 

Non quale la rischiari

Da' tuoi remoti padiglioni, o Sole,

Era di terre e mari

Opaca un dí questa rotante mole;

 

Ma di disciolte lave

E di zolfi rovente e di metalli,

Come infocata nave,

L'erta ascendeva de' celesti calli.

 

Fûro i graniti, e fûro

I regni delle felci: a mano a mano

Il seggio piú sicuro

Fêro gli spenti mostri al seme umano.

 

Strugge le sue fatiche

Non mai paga natura, e dal profondo

Di sue ruine antiche

Volve indefessa a dí piú belli il mondo.

 

Cadrò: ma con le chiavi

D'un avvenir meraviglioso. Il nulla

A piú veggenti savi:

Io nella tomba troverò la culla.

 

Co' pesci in mar ricetto

Già non ebbero i miei progenitori;

Né preser d'uomo aspetto

Per le foche passando e pe' castori,

 

Per dotte vie non corsi

Le belve ad abbracciar come sorelle;

Ma co' fanciulli io scòrsi

Una patria superba oltre le stelle.

 

Or dall'ambite cene

De' congeneri uranghi il piè torcendo,

Io verso le serene

Plaghe dell'alba la montagna ascendo.

 

Odo presaghi suoni

Trascorrere pel ciel: dall'Orïente

Divine visioni.

Fannosi incontro all'infiammata mente,

 

Più dolci della brezza

Fragrante, che dall'ultimo orizzonte

Di virginal carezza,

A Colombo blandía la scarna fronte.

 

O di futuri elisi

Intimi lampi e desiderî immensi,

Dal secolo derisi

Che a moribondo nume arde gl'incensi,

 

Chiudetevi nel canto

Del solingo poeta, e men doglioso

Fate a' congiunti il pianto

Che il sasso scalderà del suo riposo.

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