TAPPA 3 – MULINO “VANZO”

Scopri tutte le iniziative che si terranno nei prossimi mesi.

 

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IL MULINO

La famiglia Vanzo è proprietaria da generazioni dell’antico mulino. Un tempo nel territorio era fiorente l’attività molitoria, con moltissimi mulini azionati ad acqua tra Chiampo e alta Valle.

 

Lungo i secoli hanno funzionato ruote in tutti i paesi, lasciandone traccia viva nella toponomastica. Ad esempio, la contrada “Molino” a Campodalbero di Crespadoro, contrà “Folo” a Crespadoro, o la frazione “Molino di Altissimo”. Interessante toponimo anche “Folaore” a San Pietro Mussolino.

Il paese era solcato dalla rozia molendinorum, antico corso d’acqua artificiale, deviato dal torrente Chiampo, per permettere di ricavare forza motrice nei vari punti del paese.

Nel libro “Idrografia Statistica della Provincia”, del 1850, si evince che all’epoca il torrente Chiampo azionava ancora 54 mulini, 3 pile, 5 magli e 17 folli.

 

All’interno del Mulino Vanzo è ancora ben conservata la struttura originaria con le pietre delle macine, la tramoggia e gli ingranaggi del ‘600, funzionanti fino ai primi anni 2000.

L’interno del mulino del ‘700 di proprietà della famiglia Vanzo

 

 

 

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gli ingranaggi nell’interrato

Degna di nota la turbina (davanti all’edificio delle poste), recuperata da un restauro a cura della Scuola di Formazione Professionale “Fontana”. La turbina, modello Francis ad acqua, risale al 1927, e sostituiva l’antica ruota del mulino. Dopo i lavori di riqualificazione del 2012, è stata posta sull’area verde, a memoria.

la turbina degli anni ’30 del Novecento

 

 

 

tappa3_004 esterno con la ruota ricostruita nel 2012

 

“DOMENICO, O LE MEMORIE DELLA FANCIULLEZZA” – 1871

Giacomo Zanella ricorda teneramente la sua infanzia, e l’età della fanciullezza, i nove anni trascorsi a Chiampo, con l’ “errar lungo le rive de’ montani ruscelli”, e “le spelonche penetrar trepidando”, e a primavera “di prato in prato la beffarda nota del cuculo seguir”, o “sulle assicelle dondolarmi del ponte” (riferimento al “ponte che balla”, che si trovava ad Arso, frazione a nord di Chiampo); ecco la “corta, festevole odissea” della sua fanciullezza.

 

In particolare, riemergono i giorni trascorsi lungo la via Nobile, oggi via Zanella, in compagnia dell’armaiolo Domenico, che seguiva in autunno nelle giornate di caccia sui colli circostanti. Andavano all’alba, lungo i boschi e i sentieri, guardando il panorama e l’orizzonte, mentre Giacomo ascoltava le gesta belliche del già soldato Domenico.

 

 

  • Domenico Cristofari era nato a Chiampo nel 1782. Era stato soldato napoleonico («le bandiere di Buonaparte avea seguite un giorno» dice Zanella) Partecipò alle campagne della guerra di Spagna e alla famosa guerra di Russia, dove riportò anche una ferita. Dopo la disfatta di Napoleone a Lipsia, ritornò a Chiampo. Qui visse con la madre in una casa del quartiere, facendo il fabbro e l’armaiolo. Morì nel 1838.

 

Sono interessanti, nel testo di versi sciolti, le parti in grassetto che descrivono la vita della Chiampo di allora.

Più avanti si trova la malinconia, quando Zanella ritorna a cercare la casa di Domenico, dopo molti anni, inesistente. Lo Zanella ne ha ricordo vivissimo, offrendo una descrizione minuziosa, con i ferri del mestiere, la rastrelliera alla parete, uno zaino appeso al muro. E ricorda i filò, lo stare assieme, con la gente di paese e il pievano, parlando delle cose di tutti i giorni, con la vecchia madre “nell’attigua stanza” con una piccola pentola dove cuoceva il “cavolo frugal”.

 

 

Avea grigia la chioma, e scintillante

Sotto l'irsuto sopracciglio il guardo:

Avea brune le guance e d'onorata

Cicatrice sul mento il solco impresso.

Or d'armaiuolo nel paterno borgo

Officina tenea: ma le bandiere

Di Buonaparte avea seguite un giorno,

E co' fanti di Pino in Catalogna

Ed in Navarra combattuto. Indarno

Altre madri piú lustri avean de' figli

Aspettato il ritorno. Io le rammento

Le dolorose. A me, che fanciulletto

Alla scola movea, facean carezze,

E nel pensier vedean quei che del Tago

Già le sabbie coprivano, o le nevi

De' rutèni deserti. Al suo villaggio

Domenico tornato era inatteso

E non veduto una piovosa notte

Di decembre. Era l'anno, in cui prostrata

Parve di Lipsia sui cruenti campi

La fortuna di Francia. I veterani

Dall'Ebro al Volga guerreggianti eroi

Delle patrie frontiere alla difesa

Accorrean frettolosi e li chiamava,

Colle folgori al piè, Napoleone.

Immantinente abbandonâr Castiglia

Ed Aragona le franche falangi,

Cui sicura la via de' Pirenei

Fêan, sostando e pugnando al retroguardo,

Fide al vessillo e del mortale incarco

Orgogliose, l'italiche coorti.

Sulle rive del Rodano gli amplessi

Ultimi fûro e gli ultimi saluti

De' valorosi. A' dirupati varchi

Gl'ltali si drizzâr della Savoia

E, disciolte le file, in piú drappelli

Lungo il pian della Dora e dell'Olona

Oltre l'Adda, oltre il Mincio a' propri alberghi

Dileguâro. Già tutti avea per via,

Di pieve in pieve, i suoi commilitoni

Domenico lasciati che, soletto,

D'una notte al cader, sotto un nevischio,

Che l'ascondea de' curïosi al guardo,

Verso il borgo natío l'orme affrettava.

Di sua casetta s'arrestò tremando

Ed origliando al limitar. Stridea

Il filatoio che, vicina al foco,

Col piè volgea la madre poveretta;

E pe' fessi dell'uscio il picciol lume,

Ch'era alla cappa del camin sospeso,

Traluceva. Picchiò. La nota voce,

Come guizzo di folgore, i ginocchi

Disciolse a quella pia, che a stento accorse

E di pianto grondante e di sudore

Quel bello unico suo si strinse al seno.

Vecchie gioie ricordo e vecchi affanni

D'ignorati mortali. Alla sua sega,

Al suo scalpel Domenico tornava

Dopo le pugne trïonfali oscuro;

Né sapea che il suo sangue in tante guerre

Sparso per Francia maturava il lauro

Dell'itala grandezza. I fieri avanzi

Dell'iberiche pugne e del Cosacco

Primi la santa tricolor bandiera

Innalzar sul Sebeto e sul Ticino

Vide il Ventuno: e le canute fronti

Dagli eroici tuoi spaldi, o mia Vicenza,

Fulminar lo sgomento; e le Lagune

Contendere feroci allo straniero,

Noi stessi in men remoti anni vedemmo.

 

Dal giorno, che tornò, quindici volte

Domenico fiorir nell'orticello

Avea visto i gherofani, di Spagna

Innocente ricordo. Io l'anno ottavo

Varcava allora, e benché d'ombra avvolta,

Onnipossente la natura al core

Favellavami. Errar lungo le rive

De' montani ruscelli, e le spelonche

Penetrar trepidando, ove nel sasso

Sculti i vestigi delle fate addita

Rusticana leggenda: a primavera

Di prato in prato la beffarda nota

Del cuculo seguir, che sempre udito

E non mai visto, mille volte al cielo,

Alle piante, a' cespugli, alla fontana

Torcer gli occhi mi fêa: sulle assicelle

Dondolarmi del ponte, e dal molino

Sbucar bianco di crusca abito e chioma,

Fu la corta, festevole odissea

Della mia fanciullezza. I tuoi lavori

Tu pur talvolta interrompendo, a' campi,

O Domenico, uscivi; e guiderdone

Io mai non ebbi piú giocondo in terra,

Che venirne con te. D'austero piglio

Naturalmente e di recisi modi,

Come a guerresca disciplina avvezzo

E ne' stenti cresciuto, eri benigno

E grazïoso a' deboli. D'autunno,

L'archibugio alla spalla, innanzi giorno,

Salivi alla foresta; ed io che insonne

Scorsa gran parte della notte avea,

Sotto il balcon la tua chiamata intesa,

Precipitando discendea. Le stelle

Rugiadose brillavano: lo strido

Della gru, che varcava all'Orïente

Pel rotto aere cadea: la finestrella

Apriva il montanaro e, sporto il capo,

Guatava il giorno ancor profondo. Intanto

Tu lo scabro sentier m'agevolavi

Le tue storie narrando: or delle Sierre

Le terribili gole e de' moschetti

Dietro ogni scoglio ed ogni pianta occulti

L'inopinato fulminar pingevi;

Or per le lande di Castiglia aduste

Le marce polverose e de' conventi

Nelle cantine dilagate i prandî

E le incondite danze. Alteri fatti

Di Villata di Lechi e Palombini

Poi t'udía ricordar: quando il repente

Ne' roveti fruscío della beccaccia

Levata a voi, l'omerico racconto

Troncava. Chiara si facea già l'aria;

E dalle valli, ancor nel buio, un rombo

Ascendea di campane: a mezza costa

Coll'aspra voce l'arator garriva

I buoi protesi: sovra i neri solchi

E sotto i rami di vermiglie poma

All'incarco cedevoli, opulento

Odorava l'autunno. Il sommo giogo

Ad un punto col Sole io guadagnava;

E di là le Lessinie alpi rossastre

A manca mano: e alla diritta immenso,

Di città seminato e di villaggi,

Il pian vedea distendersi. Sul lembo

Dell'estremo orizzonte, in mobil cuna

Imporporata dal nascente raggio

E distinta di cupole e di torri,

Venezia mi additava il mio Strabone;

Che alzando il ciglio e del fucil la canna

Fieramente stringendo, in altra parte

Arcole mi mostrava e le paludi

Lagrimose al Tedesco. Io gli chiedea

Ove fosse la Francia; ed ei la mano

Levando verso il Sol, trinciava un arco

Verso Ponente e si fêa muto. Assorto

Io rimirava; e quel che allor sognai,

È luminosa visïon che sorge

Dal grembo della notte e la mia vita

Del fresco raggio antelucan colora.

 

                Pensoso passeggiai le vie deserte

Di venuste città. Mirando i sassi

Rósi da tanto secolo; mirando

Fra le vacue basiliche e le torri

Brucar l'erbe la capra, una tristezza

Vaga mi assalse, e tenni a forza il pianto.

Ma dal profondo sospirai, né gli occhi

Senza lagrime fûr, quando i miei tetti

Risalutando dopo lunghi soli,

La tua casetta piú non vidi e l'orto

Col noto melagratio, o già sepolto

Mio custode e compagno. Una parete

Affumicata, che reggea de' venti

Pur anco all'urto, ne segnava il sito.

O gioconde memorie, a cui non resta

Altra dimora, che il mio petto! O giorni

Che un'altra volta lagrimai perduti,

Quando vidi scomparso il dolce ostello,

Ove sereni mi splendeste! Ancora

La stanza io veggo ed il balcon che dava

Sulla pubblica via: la restrelliera

Appesa al muro e le lucenti canne

In Val Sabbia temprate ed in Val Trompia;

E succhielli e tenaglie e seghe e fusti

Riquadrati di noce. Innanzi agli occhi

Ancor mi sta l'incorniciata stampa

D'irrüenti cavalli e di falangi

A bizzarri color tutta dipinta,

Sotto cui di Marengo io sillabai

Sí spesso il nome. Ancor sull'impennato

Corridor veggo il gran Guerrier securo

Guatar la pugna ancipite. Pendea

Dalle travi chiazzate il zaino antico

Già traforato da nemico piombo,

E nell'angolo opposto una fiscella,

Onde covante colombetta il niveo

Capo mostrava. O ne' noiosi inverni

Vespertino convegno! o testimoni

D'innocuo riso e di prolissa ciarla

Zoppicanti sedili! Il buon pievano,

Dopo il dí spento in evangeliche opre,

Venir ivi solea: venían con lui

Del villaggio il maestro, ed un di piogge,

Di siccità, di brine e di gragnuole

Mirabile indovin, che del bucato

Leggeva i tempi nella Luna. Un foco

Ilare ardea nella contigua stanza,

E bollía gorgogliando il pentolino

Col cavolo frugal, che vi cocea

La madre vecchiarella. Ad altro affetto

Chiuso mantenne il buon soldato il core,

Né la sua casa consolò di nozze;

Ché gli orribili scempî e di lattanti

E di pregnanti gl'inumani eccidi

Visti da lui nell'espugnate terre,

Gli avean spento nell'alma ogni desío

Di procrear mancipî alla fortuna

E vittime a' tiranni. Oscura nube

Tratto tratto però velava i solchi

Del suo volto guerrier. Favellatore

Arguto era del resto; e la parola,

Colorava cosí, che i vivi eventi

T'erano innanzi. Un Marco Tullio, un Livio

Lo diceva il maestro, anzi un Tornielli,

Un padre da Foiano; e si dolea

Di non essere il Tasso o l'Arïosto

Per cantar quelle guerre. E la tua faccia

Veracemente ardea: piena dal labbro

Onda d'eloquio ti precipitava,

O Domenico, sia che l'insorgenti

Di Murcia descrivessi armate bande,

E le statue de' Santi, in bellicoso

Abito adorne, l'alabarda in pugno,

Capitanar gli eserciti; o di Mina

L'imboscate narrassi e di Campillo,

E confitti alle porte e trapassati

Da fanatiche palle Itali e Franchi.

Poi la furia veniva e la tempesta

Punitrice, d'acciar romoreggiante,

De' criniti dragoni, a cui d'Achille

In sembianza e d'Achille al par fatato

Precorreva Schiassetti; e de' fuggenti

Le caterve mietute; e le campagne

Sgombre dall'Ebro a' Pirenei. Narravi

Gli apparecchi, gli assalti e la ruina

Delle dome città: dense le vie

D'accalcati tremanti; ed in quel pieno

Ignea tempesta folgorar le morti

A migliaia. Dai tetti uscian di preda

L'omero onusti; uscían da' vïolati

Asili del Signor recando in braccio

Le tramortite suore i furibondi,

Che di gemmati pivïali e stole

Camuffati trescavano pe' fòri

Sdrucciolando nel sangue, e le cataste

In tronchi busti e mozzi capi orrende

Sgominavano. Quante in un sol giorno

Case disfatte! Quante vecchie stirpi,

Di cui solo rimase un orfanello,

Che la tarda pietà de' vincitori,

Già de' suoi tetti e de' suoi padri ignaro,

Nelle tende raccolse e come figlio

Dell'esercito crebbe! Interrompea

Qui Domenico il dir, l'involontario

Pianto col dosso della man tergendo;

Ma quell'ardente di brinate e piogge

Conoscitor lunatico, ch'io dissi,

Non temprava gli sdegni; e d'Inghilterra

Maledicendo alle arti infide e all'oro

Che avean posta la Spagna in tanti guai,

Vaticinava d'Albïon l'occaso,

Di non so quale pescatrice ignuda

E di non sa qual amo, alteri versi

Declamando. Piangea gli umani casi

Il buon pievano invece; all'officina

Tante braccia strappate ed alla marra,

Per l'orgoglio di un sol: genti sorelle

Di sangue e fè tratte a svenarsi: il dritto

Degl'inermi calpesto; e sospirando

Dicea: «Figliuoli, io nol vedrò: le forze

Già stenüate e questa chioma altrove

La mia stanza designano. Né voi

Forse il vedrete, e tacito matura

A' lontani nepoti il lieto evento;

Ma la cruda ragion del piú robusto

Cader vedrassi: le ravviste genti

Strette in unico patto, e per le piagge

Rinnovellate della bella Europa

L'aura diffusa del divino Amore».

 

Altre cose parlava il mansüeto

Uom del Signor ch'ei non mirò. D'Alberto

E di Vittorio le brandite spade,

Gli animi eguali e le diverse sorti

Ei non vedea: dell'italo riscatto

L'ora il trovava già sotterra. Il sasso

E le pie zolle io visitai che il capo

Venerato nascondono. Una croce

Poco lungi da lui la fossa addita

Di Domenico. Oh quante ombre di giorni

Avventurosi mi assaliro! Oh quante

Nel recinto di morte io ritrovai

Ore di vita! Per le guance il pianto

Mi discendea; ma d'ineffabil dolce

Temprato. Lieto ripeteami il core

Che de' convegni e de' sermoni amici

Chiusa per sempre la stagion non era;

Ma che da noi di gioventù rifatti,

Di sembianze e d'amor sarian ripresi,

Ove piú tronchi non li avrebbe il tempo.

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