TAPPA 3
MULINO “VANZO
a cura di Matteo Pieropan
TAPPA 3 – MULINO “VANZO”
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IL MULINO
La famiglia Vanzo è proprietaria da generazioni dell’antico mulino. Un tempo nel territorio era fiorente l’attività molitoria, con moltissimi mulini azionati ad acqua tra Chiampo e alta Valle.
Lungo i secoli hanno funzionato ruote in tutti i paesi, lasciandone traccia viva nella toponomastica. Ad esempio, la contrada “Molino” a Campodalbero di Crespadoro, contrà “Folo” a Crespadoro, o la frazione “Molino di Altissimo”. Interessante toponimo anche “Folaore” a San Pietro Mussolino.
Il paese era solcato dalla rozia molendinorum, antico corso d’acqua artificiale, deviato dal torrente Chiampo, per permettere di ricavare forza motrice nei vari punti del paese.
Nel libro “Idrografia Statistica della Provincia”, del 1850, si evince che all’epoca il torrente Chiampo azionava ancora 54 mulini, 3 pile, 5 magli e 17 folli.
All’interno del Mulino Vanzo è ancora ben conservata la struttura originaria con le pietre delle macine, la tramoggia e gli ingranaggi del ‘600, funzionanti fino ai primi anni 2000.
L’interno del mulino del ‘700 di proprietà della famiglia Vanzo
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gli ingranaggi nell’interrato
Degna di nota la turbina (davanti all’edificio delle poste), recuperata da un restauro a cura della Scuola di Formazione Professionale “Fontana”. La turbina, modello Francis ad acqua, risale al 1927, e sostituiva l’antica ruota del mulino. Dopo i lavori di riqualificazione del 2012, è stata posta sull’area verde, a memoria.
la turbina degli anni ’30 del Novecento
esterno con la ruota ricostruita nel 2012
“DOMENICO, O LE MEMORIE DELLA FANCIULLEZZA” – 1871
Giacomo Zanella ricorda teneramente la sua infanzia, e l’età della fanciullezza, i nove anni trascorsi a Chiampo, con l’ “errar lungo le rive de’ montani ruscelli”, e “le spelonche penetrar trepidando”, e a primavera “di prato in prato la beffarda nota del cuculo seguir”, o “sulle assicelle dondolarmi del ponte” (riferimento al “ponte che balla”, che si trovava ad Arso, frazione a nord di Chiampo); ecco la “corta, festevole odissea” della sua fanciullezza.
In particolare, riemergono i giorni trascorsi lungo la via Nobile, oggi via Zanella, in compagnia dell’armaiolo Domenico, che seguiva in autunno nelle giornate di caccia sui colli circostanti. Andavano all’alba, lungo i boschi e i sentieri, guardando il panorama e l’orizzonte, mentre Giacomo ascoltava le gesta belliche del già soldato Domenico.
Sono interessanti, nel testo di versi sciolti, le parti in grassetto che descrivono la vita della Chiampo di allora.
Più avanti si trova la malinconia, quando Zanella ritorna a cercare la casa di Domenico, dopo molti anni, inesistente. Lo Zanella ne ha ricordo vivissimo, offrendo una descrizione minuziosa, con i ferri del mestiere, la rastrelliera alla parete, uno zaino appeso al muro. E ricorda i filò, lo stare assieme, con la gente di paese e il pievano, parlando delle cose di tutti i giorni, con la vecchia madre “nell’attigua stanza” con una piccola pentola dove cuoceva il “cavolo frugal”.
Avea grigia la chioma, e scintillante
Sotto l'irsuto sopracciglio il guardo:
Avea brune le guance e d'onorata
Cicatrice sul mento il solco impresso.
Or d'armaiuolo nel paterno borgo
Officina tenea: ma le bandiere
Di Buonaparte avea seguite un giorno,
E co' fanti di Pino in Catalogna
Ed in Navarra combattuto. Indarno
Altre madri piú lustri avean de' figli
Aspettato il ritorno. Io le rammento
Le dolorose. A me, che fanciulletto
Alla scola movea, facean carezze,
E nel pensier vedean quei che del Tago
Già le sabbie coprivano, o le nevi
De' rutèni deserti. Al suo villaggio
Domenico tornato era inatteso
E non veduto una piovosa notte
Di decembre. Era l'anno, in cui prostrata
Parve di Lipsia sui cruenti campi
La fortuna di Francia. I veterani
Dall'Ebro al Volga guerreggianti eroi
Delle patrie frontiere alla difesa
Accorrean frettolosi e li chiamava,
Colle folgori al piè, Napoleone.
Immantinente abbandonâr Castiglia
Ed Aragona le franche falangi,
Cui sicura la via de' Pirenei
Fêan, sostando e pugnando al retroguardo,
Fide al vessillo e del mortale incarco
Orgogliose, l'italiche coorti.
Sulle rive del Rodano gli amplessi
Ultimi fûro e gli ultimi saluti
De' valorosi. A' dirupati varchi
Gl'ltali si drizzâr della Savoia
E, disciolte le file, in piú drappelli
Lungo il pian della Dora e dell'Olona
Oltre l'Adda, oltre il Mincio a' propri alberghi
Dileguâro. Già tutti avea per via,
Di pieve in pieve, i suoi commilitoni
Domenico lasciati che, soletto,
D'una notte al cader, sotto un nevischio,
Che l'ascondea de' curïosi al guardo,
Verso il borgo natío l'orme affrettava.
Di sua casetta s'arrestò tremando
Ed origliando al limitar. Stridea
Il filatoio che, vicina al foco,
Col piè volgea la madre poveretta;
E pe' fessi dell'uscio il picciol lume,
Ch'era alla cappa del camin sospeso,
Traluceva. Picchiò. La nota voce,
Come guizzo di folgore, i ginocchi
Disciolse a quella pia, che a stento accorse
E di pianto grondante e di sudore
Quel bello unico suo si strinse al seno.
Vecchie gioie ricordo e vecchi affanni
D'ignorati mortali. Alla sua sega,
Al suo scalpel Domenico tornava
Dopo le pugne trïonfali oscuro;
Né sapea che il suo sangue in tante guerre
Sparso per Francia maturava il lauro
Dell'itala grandezza. I fieri avanzi
Dell'iberiche pugne e del Cosacco
Primi la santa tricolor bandiera
Innalzar sul Sebeto e sul Ticino
Vide il Ventuno: e le canute fronti
Dagli eroici tuoi spaldi, o mia Vicenza,
Fulminar lo sgomento; e le Lagune
Contendere feroci allo straniero,
Noi stessi in men remoti anni vedemmo.
Dal giorno, che tornò, quindici volte
Domenico fiorir nell'orticello
Avea visto i gherofani, di Spagna
Innocente ricordo. Io l'anno ottavo
Varcava allora, e benché d'ombra avvolta,
Onnipossente la natura al core
Favellavami. Errar lungo le rive
De' montani ruscelli, e le spelonche
Penetrar trepidando, ove nel sasso
Sculti i vestigi delle fate addita
Rusticana leggenda: a primavera
Di prato in prato la beffarda nota
Del cuculo seguir, che sempre udito
E non mai visto, mille volte al cielo,
Alle piante, a' cespugli, alla fontana
Torcer gli occhi mi fêa: sulle assicelle
Dondolarmi del ponte, e dal molino
Sbucar bianco di crusca abito e chioma,
Fu la corta, festevole odissea
Della mia fanciullezza. I tuoi lavori
Tu pur talvolta interrompendo, a' campi,
O Domenico, uscivi; e guiderdone
Io mai non ebbi piú giocondo in terra,
Che venirne con te. D'austero piglio
Naturalmente e di recisi modi,
Come a guerresca disciplina avvezzo
E ne' stenti cresciuto, eri benigno
E grazïoso a' deboli. D'autunno,
L'archibugio alla spalla, innanzi giorno,
Salivi alla foresta; ed io che insonne
Scorsa gran parte della notte avea,
Sotto il balcon la tua chiamata intesa,
Precipitando discendea. Le stelle
Rugiadose brillavano: lo strido
Della gru, che varcava all'Orïente
Pel rotto aere cadea: la finestrella
Apriva il montanaro e, sporto il capo,
Guatava il giorno ancor profondo. Intanto
Tu lo scabro sentier m'agevolavi
Le tue storie narrando: or delle Sierre
Le terribili gole e de' moschetti
Dietro ogni scoglio ed ogni pianta occulti
L'inopinato fulminar pingevi;
Or per le lande di Castiglia aduste
Le marce polverose e de' conventi
Nelle cantine dilagate i prandî
E le incondite danze. Alteri fatti
Di Villata di Lechi e Palombini
Poi t'udía ricordar: quando il repente
Ne' roveti fruscío della beccaccia
Levata a voi, l'omerico racconto
Troncava. Chiara si facea già l'aria;
E dalle valli, ancor nel buio, un rombo
Ascendea di campane: a mezza costa
Coll'aspra voce l'arator garriva
I buoi protesi: sovra i neri solchi
E sotto i rami di vermiglie poma
All'incarco cedevoli, opulento
Odorava l'autunno. Il sommo giogo
Ad un punto col Sole io guadagnava;
E di là le Lessinie alpi rossastre
A manca mano: e alla diritta immenso,
Di città seminato e di villaggi,
Il pian vedea distendersi. Sul lembo
Dell'estremo orizzonte, in mobil cuna
Imporporata dal nascente raggio
E distinta di cupole e di torri,
Venezia mi additava il mio Strabone;
Che alzando il ciglio e del fucil la canna
Fieramente stringendo, in altra parte
Arcole mi mostrava e le paludi
Lagrimose al Tedesco. Io gli chiedea
Ove fosse la Francia; ed ei la mano
Levando verso il Sol, trinciava un arco
Verso Ponente e si fêa muto. Assorto
Io rimirava; e quel che allor sognai,
È luminosa visïon che sorge
Dal grembo della notte e la mia vita
Del fresco raggio antelucan colora.
Pensoso passeggiai le vie deserte
Di venuste città. Mirando i sassi
Rósi da tanto secolo; mirando
Fra le vacue basiliche e le torri
Brucar l'erbe la capra, una tristezza
Vaga mi assalse, e tenni a forza il pianto.
Ma dal profondo sospirai, né gli occhi
Senza lagrime fûr, quando i miei tetti
Risalutando dopo lunghi soli,
La tua casetta piú non vidi e l'orto
Col noto melagratio, o già sepolto
Mio custode e compagno. Una parete
Affumicata, che reggea de' venti
Pur anco all'urto, ne segnava il sito.
O gioconde memorie, a cui non resta
Altra dimora, che il mio petto! O giorni
Che un'altra volta lagrimai perduti,
Quando vidi scomparso il dolce ostello,
Ove sereni mi splendeste! Ancora
La stanza io veggo ed il balcon che dava
Sulla pubblica via: la restrelliera
Appesa al muro e le lucenti canne
In Val Sabbia temprate ed in Val Trompia;
E succhielli e tenaglie e seghe e fusti
Riquadrati di noce. Innanzi agli occhi
Ancor mi sta l'incorniciata stampa
D'irrüenti cavalli e di falangi
A bizzarri color tutta dipinta,
Sotto cui di Marengo io sillabai
Sí spesso il nome. Ancor sull'impennato
Corridor veggo il gran Guerrier securo
Guatar la pugna ancipite. Pendea
Dalle travi chiazzate il zaino antico
Già traforato da nemico piombo,
E nell'angolo opposto una fiscella,
Onde covante colombetta il niveo
Capo mostrava. O ne' noiosi inverni
Vespertino convegno! o testimoni
D'innocuo riso e di prolissa ciarla
Zoppicanti sedili! Il buon pievano,
Dopo il dí spento in evangeliche opre,
Venir ivi solea: venían con lui
Del villaggio il maestro, ed un di piogge,
Di siccità, di brine e di gragnuole
Mirabile indovin, che del bucato
Leggeva i tempi nella Luna. Un foco
Ilare ardea nella contigua stanza,
E bollía gorgogliando il pentolino
Col cavolo frugal, che vi cocea
La madre vecchiarella. Ad altro affetto
Chiuso mantenne il buon soldato il core,
Né la sua casa consolò di nozze;
Ché gli orribili scempî e di lattanti
E di pregnanti gl'inumani eccidi
Visti da lui nell'espugnate terre,
Gli avean spento nell'alma ogni desío
Di procrear mancipî alla fortuna
E vittime a' tiranni. Oscura nube
Tratto tratto però velava i solchi
Del suo volto guerrier. Favellatore
Arguto era del resto; e la parola,
Colorava cosí, che i vivi eventi
T'erano innanzi. Un Marco Tullio, un Livio
Lo diceva il maestro, anzi un Tornielli,
Un padre da Foiano; e si dolea
Di non essere il Tasso o l'Arïosto
Per cantar quelle guerre. E la tua faccia
Veracemente ardea: piena dal labbro
Onda d'eloquio ti precipitava,
O Domenico, sia che l'insorgenti
Di Murcia descrivessi armate bande,
E le statue de' Santi, in bellicoso
Abito adorne, l'alabarda in pugno,
Capitanar gli eserciti; o di Mina
L'imboscate narrassi e di Campillo,
E confitti alle porte e trapassati
Da fanatiche palle Itali e Franchi.
Poi la furia veniva e la tempesta
Punitrice, d'acciar romoreggiante,
De' criniti dragoni, a cui d'Achille
In sembianza e d'Achille al par fatato
Precorreva Schiassetti; e de' fuggenti
Le caterve mietute; e le campagne
Sgombre dall'Ebro a' Pirenei. Narravi
Gli apparecchi, gli assalti e la ruina
Delle dome città: dense le vie
D'accalcati tremanti; ed in quel pieno
Ignea tempesta folgorar le morti
A migliaia. Dai tetti uscian di preda
L'omero onusti; uscían da' vïolati
Asili del Signor recando in braccio
Le tramortite suore i furibondi,
Che di gemmati pivïali e stole
Camuffati trescavano pe' fòri
Sdrucciolando nel sangue, e le cataste
In tronchi busti e mozzi capi orrende
Sgominavano. Quante in un sol giorno
Case disfatte! Quante vecchie stirpi,
Di cui solo rimase un orfanello,
Che la tarda pietà de' vincitori,
Già de' suoi tetti e de' suoi padri ignaro,
Nelle tende raccolse e come figlio
Dell'esercito crebbe! Interrompea
Qui Domenico il dir, l'involontario
Pianto col dosso della man tergendo;
Ma quell'ardente di brinate e piogge
Conoscitor lunatico, ch'io dissi,
Non temprava gli sdegni; e d'Inghilterra
Maledicendo alle arti infide e all'oro
Che avean posta la Spagna in tanti guai,
Vaticinava d'Albïon l'occaso,
Di non so quale pescatrice ignuda
E di non sa qual amo, alteri versi
Declamando. Piangea gli umani casi
Il buon pievano invece; all'officina
Tante braccia strappate ed alla marra,
Per l'orgoglio di un sol: genti sorelle
Di sangue e fè tratte a svenarsi: il dritto
Degl'inermi calpesto; e sospirando
Dicea: «Figliuoli, io nol vedrò: le forze
Già stenüate e questa chioma altrove
La mia stanza designano. Né voi
Forse il vedrete, e tacito matura
A' lontani nepoti il lieto evento;
Ma la cruda ragion del piú robusto
Cader vedrassi: le ravviste genti
Strette in unico patto, e per le piagge
Rinnovellate della bella Europa
L'aura diffusa del divino Amore».
Altre cose parlava il mansüeto
Uom del Signor ch'ei non mirò. D'Alberto
E di Vittorio le brandite spade,
Gli animi eguali e le diverse sorti
Ei non vedea: dell'italo riscatto
L'ora il trovava già sotterra. Il sasso
E le pie zolle io visitai che il capo
Venerato nascondono. Una croce
Poco lungi da lui la fossa addita
Di Domenico. Oh quante ombre di giorni
Avventurosi mi assaliro! Oh quante
Nel recinto di morte io ritrovai
Ore di vita! Per le guance il pianto
Mi discendea; ma d'ineffabil dolce
Temprato. Lieto ripeteami il core
Che de' convegni e de' sermoni amici
Chiusa per sempre la stagion non era;
Ma che da noi di gioventù rifatti,
Di sembianze e d'amor sarian ripresi,
Ove piú tronchi non li avrebbe il tempo.